Pedone investito, costretto a letto e ucciso da un’embolia: conducente condannato per omicidio stradale

Decisivo il riferimento all’evoluzione subita dallo stato di salute della vittima nel periodo successivo all’incidente

Pedone investito, costretto a letto e ucciso da un’embolia: conducente condannato per omicidio stradale

Pedone investito e costretto ad un’immobilizzazione forzata che causa poi un’embolia fatale: conducente condannato per omicidio stradale. Decisivo, secondo i giudici (sentenza numero 15459 del 18 aprile 2025 della Cassazione), il riferimento all’evoluzione subita dallo stato di salute della vittima nel periodo successivo all’incidente.
Scenario del drammatico episodio, risalente a quasi nove anni fa, è la provincia toscana. Accertati i dettagli, che inchiodano l’automobilista. In una sera d’agosto del 2016, la persona offesa – una donna –, mentre attraversa la strada perpendicolarmente alla carreggiata, da sinistra verso destra, in un tratto ove non sono presenti strisce pedonali, giunta in prossimità della linea di mezzeria, viene investita da una vettura, condotta da un uomo, che sta procedendo a bassa velocità (circa 30-35 chilometri orari) in un tratto in cui il sole era radente. Per effetto dell’urto, la donna ha sbattuto, dapprima sul cofano e con la testa sul parabrezza e, successivamente, è caduta a terra, riportando lesioni non letali, ovvero trauma cranico e fratture multiple. Nei giorni successivi, la donna viene ricoverata presso varie strutture ospedaliere, poi presso una ‘RSA’, e infine fa rientro a casa, dove, due giorni dopo, viene colpita da embolia polmonare e muore.
Per i giudici di merito non ci sono dubbi: l’embolia fatale, arrivata quarantaquattro giorni dopo l’incidente, è stata causata dalla protratta immobilizzazione della donna, a sua volta causata dal politrauma riportato a seguito dell’incidente stradale. E questo filo rosso conduce alla colpevolezza dell’automobilista, condannato per omicidio stradale, a fronte di evidenti profili di colpa, ossia negligenza, imprudenza e imperizia.
A fronte delle obiezioni sollevate dalla difesa, anche per i magistrati di Cassazione è indiscutibile la responsabilità penale dell’automobilista. Confermata in via definitiva, quindi, la sua condanna per omicidio stradale. Ciò partendo innanzitutto dalla prospettazione medico-scientifica acquisita durante il processo: il fattore di rischio trombotico era da collegare alla immobilizzazione successiva all’evento traumatico, quale quello delle lesioni riportate a seguito di un incidente stradale, come reso evidente, del resto, dalla profilassi prescritta alla donna e basata sulla somministrazione di anticoagulanti, che, tuttavia, non possono azzerare il relativo rischio.
Per quanto concerne, invece, la condotta di guida tenuta dall’automobilista, a risultare decisive sono le condizioni ambientali presenti al momento dell’incidente rivelatosi, a distanza di tempo, mortale.
Nello specifico, si è appurato che la visuale dell’automobilista, al momento del sinistro, non era ostacolata dai raggi del sole, e che, anche a voler prestare fede alla sua versione, corroborata dalla deposizione di un teste (il quale ha ricordato la presenza di sole radente), in ogni caso tale circostanza non lo esonerava da colpa, giacché avrebbe dovuto ulteriormente decelerare o, addirittura, arrestare la marcia, proprio per non esporre a rischio la incolumità di terze persone. Peraltro, l’attraversamento compiuto dalla persona offesa non era evenienza imprevedibile, visto che la strada presentava passaggi pedonali e attraversava una zona abitata, costeggiata da negozi in orario in cui erano ancora aperti, sicché tutte tali circostanze avrebbero dovuto allertare il conducente, soprattutto se alla guida in condizioni ambientali disagevole.
Lampante, quindi, secondo i giudici, la colpa attribuibile all’automobilista, avendo egli violato il ‘Codice della strada’, che impone di tenere una condotta di guida tale da consentire di compiere tutte le manovre in condizioni di sicurezza e di arrestarsi di fronte a ostacoli prevedibili e in presenza di pedoni e che detta regole di guida volte specificamente alla salvaguardia del pedone.
Evidente, quindi, il comportamento negligente tenuto dall’automobilista, che avrebbe, viste le condizioni ambientali, dovuto moderare maggiormente la velocità, fino ad arrestarsi.
Tirando le somme, la presenza della vittima sulla sede stradale era evenienza prevedibile e le condizioni concrete non hanno compromesso la visuale dell’automobilista, palesemente colpevole, perciò, per l’incidente.
Non a caso, il conducente di un veicolo è tenuto a vigilare al fine di avvistare il pedone, implicando il relativo avvistamento la percezione di una situazione di pericolo, in presenza della quale è tenute a porre in essere una serie di accorgimenti (in particolare, moderare la velocità e, all’occorrenza, arrestare la marcia del veicolo) al fine di prevenire il rischio di un investimento. Da ciò consegue che, nel caso di investimento di un pedone, perché possa essere affermata la colpa esclusiva di costui per le lesioni subite o per la morte, rileva la sua avvistabilità da parte del conducente del veicolo investitore, cioè è necessario che quest’ultimo si sia trovato, per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di avvistare il pedone e di osservarne tempestivamente i movimenti, attuati in modo rapido ed inatteso. Occorre, inoltre, che nessuna infrazione alle norme della circolazione stradale ed a quelle di comune prudenza sia riscontrabile nel comportamento del conducente del veicolo. Di contro, il rispetto del limite massimo di velocità consentito non esclude la responsabilità del conducente qualora la causazione dell’evento sia comunque riconducibile alla violazione delle regole di condotta stabilite dal ‘Codice della strada’.